tristi tropi

Mumble. Ridendo e scherzando tra poco più di un mese Lévi-Strauss compie cento anni tondi tondi. Corna facendo.
Il nostro caro vecchiaccio dalla coriaceità giudaica si è lasciato dietro un gran numero di suoi discepoli, anche di terza generazione.
Chissà com’è vivere una buona fetta della propria esistenza da classico, con la consapevolezza che buona parte del proprio pubblico ignora il fatto che un classico possa essere ancora vivo e presente sullo stesso suolo terrestre, anche senza apparire in tv.
Carmelo Bene ci giocava con questa storia, nella sua autointroduzione alla propria opera canonizzata, bompianizzata. Preludio di una morte necessaria. Qui invece c’è poco da scherzare: al buon Claude è successo veramente, non solo di sopravvivere alla canonizzazione della propria disciplina, esondata dall’angusto vaso dell’antropologia al morbido e vasto terreno epistemico sottostante. Ma addirittura di sopravvivere all’esaurimento e successivo abbandono di quella moda teorica che fu lo strutturalismo.


Me lo immagino scorrere con lo sguardo di vecchio le copertine dei suoi lavori, tentare di ricostruirne la genesi, con la certezza che per il suo mondo, il mondo accademico, si tratta di fondamenta romane sotto un palazzo rinascimentale. Da custodire se dissepolte, agli occhi stupiti del turista, o lasciare giacere là sotto, con involontaria o drammatica reverenza.
Eppure io sono vivo! Chissà se lo pensa.
Il mio professore col codino, ma ora che ne parlo di anni ne saranno passati quasi dieci, diceva all’epoca che nei convegni internazionali lo invitavano, il vecchio rincoglionito, e lui ci andava pure, senza fare interventi, così a presenziare in silenzio. Come, in una seduta del Senato durante l’interregno di Giuliano, il prostrarsi davanti alla dorata statua della Vittoria: una formalità dovuta non all’uomo quanto alla storia della disciplina che incarna(va).


Deve avere un effetto inconcepibile, essere un classico da vivo: così come non si può sopravvivere alla morte di un figlio, deve essere. Perchè un classico diventa tale quando non appartiene più al presente, quando resta inerte, fermo, ancorato alla citazione, costretto al distacco dalle cose operative, punto fermo e immobile.
Mai come nel caso di Lévi-Strauss si delinea una inevitabile schizofrenia tra uomo/opera che solo una vasta saggezza può allontanare, o più semplicemente una naturale recessione delle facoltà mentali, un ammorbidimento, la grazia menefreghista dei vecchi.


Questa pippa per dire: l’altro giorno ho ritrovato con piacere, nella mia riserva di carta, un vecchio libro sellerio, di quelli con la copertina porosa e la serigrafia – nel caso specifico un’azzeccatissima donna allo specchio del GENIO Alberto Martini – a firma "Claude Lévi-Strauss" e intitolato "l’Identità".
La cosa più importante da notare, per ora, è che all’epoca -1977 mi pare, non ho il libro con me ora- levi strauss era come fucò fino a pochi anni fa, che potevi vendere qualsiasi cosa con la scritta Foucault sopra, anche la lista della spesa di un suo vicino di casa… levi strauss era cioè il marchio con cui l’utente non specializzato si accattava l’antropologia.
Infatti quel libro "L’identità" non è(ra) uno scritto di Levi Strauss, ma una raccolta di testi e trascrizioni di interventi di un seminario da lui promosso.
Una raccolta di testi di vari autori con solo uno stringatissimo intervento del nostro vecchio, vecchio già all’epoca. Eppure non ancora morto, presenziante.
La seconda cosa da notare, sempre per ora, è la foto che ho scelto per questo post: la faccia di Donato, tra il perplesso/irrisorio come quella che aveva quando, all’epoca, gli feci leggere uno degli interventi di codesto libro, in cui un tale (di cui non ricordo affatto il nome, e stanotte manco gugle mi viene in soccorso, perdonatemi) cercava di applicare all’oggetto "identità" la teoria delle catastrofi di Thom con un lungo groviglio teorico, sconclusionato e forzato, al termine del quale lo stesso Lévi-Strauss fu costretto ad ammettere di non averci capito un cazzo e di essere piuttosto perplesso/irrisorio. Lessi questo pezzo ad alta voce per il mero gusto di condividere simili barocchismi accademici proponibili solo negli anni settanta, ahimè, e piangere con Donato la fine di quei tempi di gaudiosa fattanza stilistica che non ci è stato concesso vivere.

Ma il punto qua è che, già allora, anche se la presenza di Strauss era imprescindibile (soprattutto ai fini di visibilità), il suo parere presente risultava irrilevante e lontano, come fosse morto, appunto. Come una statua che annuisce senza potersi alzare e pisciare sugli astanti.
Cosa succederà quando il vecchio morirà veramente?
Non sono sicuro fosse questo ciò di cui volevo parlare…

 

UPDATE:

«Pensi ai molluschi in una sfera molto diversa dall’umanità. Secernono
e creano conchiglie stupende, nelle quali si possono trovare verità
matematiche. E’ ingiusto interessarsi degli animali, mentre è legittimo
interessarsi delle conchiglie. E ciò che m’interessa degli uomini è
l’equivalente delle conchiglie, cioè le opere o i miti che gli uomini
secernono». – ho appena scoperto questo.

This entry was posted in candidamente. Bookmark the permalink.

One Response to tristi tropi

  1. Effetto Carroll says:

    Quello di “morfogenesi del senso”, per capirci. Una cagata fortunatamente caduta tra i reminders senza passare dal via, come la sua faccia, del resto.

Comments are closed.